Scuola di Giornalismo Sportivo

Corso di giornalismo sportivo: Allen Iverson, rivoluzione dell’imperfezione

Davide Guzzardi, partecipante al corso diretto da Paolo Del Genio, ha analizzato la figura di Allen Iverson.

 Se è la vostra prima sera al Fight Club dovete combattere. E per qualcuno è sempre la prima sera, è sempre quella maledetta prima. Ed Allen Iverson combatteva, sempre.
Il più grande giocatore di basket a non aver mai vinto un titolo NBA nasce il 7 giugno 1975 ad Hampton, Virginia, da mamma Ann che ha il suo bel da fare per tirarlo su da sola e per evitargli cattive compagnie.
Trova una preziosa alleata nella palla, quella ovale del football, sport perfetto per sfogare l’”attitude” del piccolo Allen. Ma non sarà la NFL la sua casa, quella porta per lui si chiuderà definitivamente nel ’93 quando finisce in prigione per una rissa in una sala da bowling.
Fortuna che c’è un altro sport in cui il nostro ostentava superiorità: il basket, e qui comincia la magia. Prima scelta assoluta dei Philadelphia 76ers nel ’96, squadra con cui giocherà 11 dei suoi 14 anni di carriera NBA, una media attorno ai 25 punti a partita nel suo anno da rookie (primo anno da professionista) nel quale posterizza un certo Michael Jordan in un corssover che resta nella storia del gioco.
Dopo 10 anni di 76ers vestirà le maglie di Denver, Detroit e Memphis, prima di un ritorno strappalacrime nella città dell’amore fraterno, chiuso con la migrazione in Turchia, al Besiktas, più un’umiliazione che una pensione d’oro per uno che è stato 4 volte top scorer della lega, che ha segnato oltre 26.000 punti in carriera, MVP della stagione regolare nel 2001 e 3 volte leader per palle rubate.
Ogni sera scendeva nello scantinato di Lou che, per l’occasione, si trasferiva al Wells Fargo Center di Philadelphia e si riempiva di 21.000 persone venute solo per vedere lui, il Tyler Durden di Hampton, Virginia, che invece di chiudere le mani a pugno un bel giorno, ringraziando a Dio, ha deciso di aprirle per dare due palleggi ad una palla a spicchi. Quel palleggio.
Se non bastasse tutto questo per definire Allen Iverson, per piantarlo in quella speciale galleria di uomini che trascendono l’umana stirpe per restare immortali, allora basterebbe il palleggio.
Immaginate la scena, luci soffuse, palazzetto vuoto, solo un “negro” di 1.80 in mezzo al campo e voi seduti in panca, chiudete gli occhi: quel rumore che sentite non è una grancassa, che ci crediate o no, John Bonham stasera s’è messo un completino e la sua rabbia la scarica sul parquet.
È Allen Iverson che si prepara a fare qualcosa che nessuno pensava potesse fare, come ha sempre fatto nella vita, come quand’è cresciuto con una madre sola, come quando il suo sogno di sgravare dalle condizioni economiche disastrose della famiglia con il football è naufragato assieme ai lupini di Padron ‘Ntoni, come quando uno così non potrà mai essere l’IT factor della lega. E non solo per l’altezza.
L’NBA lo ama per le sue doti, per il suo genio, ma lo odia perchè è diverso: treccine, tatuaggi, non si uniforma allo standard, il suo “trah talking” è scomodo perchè non si limita al campo. È se stesso in un mondo che ti vuole come vuole lui. Diverso da tutti, per questo AI ha cambiato per sempre le regole del gioco, non quello del campo, quello di tutto il resto che entra anche nel campo, il “bad guy” al comando della barca. E poco importa se non s’è mai messo al dito l’anello, pazienza se Novecento non è mai sceso dalla nave ed ha finito col saltare in aria con lei, la perfezione non è di questo mondo, Allen l’aveva capito quando era un ragazzino.
E quel 3 stampato sulla maglia, quello che resterà per sempre in una teca nel “suo” scantinato da 21.000 posti e che non potrà mai più indossare nessuno in quel di Philadelphia, è sempre stato una sfida, uno schiaffo alla cabala, il numero perfetto sul più imperfetto degli uomini, su chi ha fatto della distruzione della perfezione il suo mantra. “Dovrebbe mostrare più rispetto”, dirà di lui Jordan, “Io non rispetto nessuno”, immediata replica di Iverson, e siamo di nuovo nello scantinato di Lou, il Fight Club dentro.
Perchè è così “Me, My-self and I-verson”, come lo chimera Charles Barkley, è così, “The Answer”, la risposta ad una domanda che nessuno ha posto, tranne chi ha desiderato una rivoluzione totale nella concezione della guardia tiratrice nel gioco del basket, un nuovo livello di intensità, di rabbia, di furore agonistico, tranne chi aspettava da anni un giocatore diverso da chiunque altro.
Tyler Durden da Hampton, Virginia, immarcabile per condizione esistenziale, dalla droga, dalla polizia, dalla sfiga di una vita potenzialmente di merda, dagli avversari in campo, dagli stereotipi, dalla perfezione. Anche la Monnalisa cade a pezzi, Allen Iverson non ha mai vinto un campionato NBA, l’ha sfiorato, ma non l’ha mai fatto suo. Non solo, ha terminato la carriera lontano dalle luci, in Turchia, fuori da quell’NBA che l’amava e odiava come si fa solo come i più grandi amori della propria vita. Ma forse è giusto così, sarebbe stato troppo, sarebbe stato…perfetto e, quindi, non sarebbe stato lui.
E, per dirla come “The Answer”: “Quant’era figo essere me”, probabilmente troppo Allen, e di questo, te ne saremo sempre grati. Ottava e ultima regola, se è la vostra prima sera al Fight Club, dovete combattere. Quindi, via i guantoni, tirate fuori la palla.

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