Rassegna Stampa

Mihajlovic, la figlia Viktorija: “Ha sempre lottato. Vi racconto il mio Sergente Sinisa”

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Sinisa Mihajlovic è tornato a correre. Ecco la toccante intervista rilasciata dalla figlia Viktorija ai microfoni del Corriere della Sera.

 

 

“Fino a ieri camminava e basta, questa è la prima volta che si allena e io so quanto lo desiderava. Vederlo è stata un’emozione. Mi è tornato in mente quando l’ho visto dopo il primo ciclo di chemioterapia: le gambe di colpo secche, le orecchie sembravano enormi perché aveva perso i capelli. L’ho abbracciato e non ho sentito la sua stretta, non ho molta forza, mi ha detto. Ho pianto, dopo.

Tutti noi eravamo in Sardegna al mare e lui a Bologna. Ha telefonato a mamma, che ha un carattere forte e gli ha detto subito: stai tranquillo, ce la faremo. Poi mamma l’ha detto a noi, a me per ultima perché sa che non controllo le emozioni e che ho la fobia degli ospedali. Da sempre, la mia paura più grande era che mamma o papà stessero male. Mia sorella è venuta a chiamarmi e aveva la faccia sconvolta. Ho pensato di aver fatto io qualcosa di male. Papà era uno sportivo, giocava a Paddle tre ore di seguito, era inimmaginabile che stesse male.

Mi sono accasciata per terra, mi ripetevo che non poteva essere successo a noi, proprio a lui che ha già sofferto tanto, che è cresciuto povero e sotto le bombe, in Serbia. Ho urlato, pianto e spaccato tutto. E desideravo solo essere figlia unica, perché pensavo che quello era un dolore troppo grande per i miei fratelli. La parole leucemia, per me, significava morte certa.

Ora lui sta bene, anche se la sua è una malattia infida, non puoi mai dirti fuori pericolo. Dipende da che leucemia hai. Però papà è stato forte e fortunato, perché ha sopportato tre cicli di chemio, ha trovato un midollo compatibile e fatto il trapianto, e non si è mai perso d’animo. Seguiva gli allenamenti al computer e il giorno in cui è uscito dall’ospedale, senza aver mosso prima un passo, è andato dai suoi calciatori.

Papà era il Sergente Sinisa anche a casa. Quello che a tavola defi finire tutto e non si guarda il cellulare, quello che i lunedì, suo giorno libero, veniva a paralre con la preside perché io sono sempre stata ribelle e rispondevo ai professori. Lui mi metteva in punizione. Una volta, dopo due settimane chiusa in casa a giugno perché avevo preso due debiti a scuola, lo imploro di farmi uscire e lui: vai sul balcone. C’era anche il papà buffo che faceva ridere noi bimbi facendo il clown, cadeva per terra, si toglieva il calzino e ce lo lanciava.

Con la malattia è diventato più empatico. Si commuove per il messaggio di un amico e, prima, mi abbracciava ma il dialogo non c’era, mentre ora parliamo. Un giorno gli ho dato lo sciroppo, lui ha fatto: aaah, e si è lasciato imboccare come un bambino”.

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