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Sacchi: “Sarri ha portato il Napoli nel futuro”

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Arrigo Sacchi  rilasciato una lunga intervista alla gazzetta dello sport.

SARRI HA GIÀ VINTO «Il Napoli è nel futuro: qualità e valori senza top player. Con Maurizio si migliora»
A MAX MANCA UNA COSA… «Allegri è uno dei più grandi tecnici italiani di tutti i tempi. Però deve inseguire anche la bellezza»
L’OSSESSIONE NEL DNA «Io sono fatto così. Guardiola è come me. E pure Conte, anche se soffre di tatticismo»
Nell’elegante studio di Arrigo Sacchi c’è un pallone grigio autografato da Pelé, Maradona e Di Stefano. «Voleva firmarlo anche Butragueño, gli ho detto: para ti, otro». Non tutto è per tutti.
Nella palestra di casa sfilano le riproduzioni fedeli, in argento, delle due Coppe Campioni, regalate da Berlusconi, e poi le due Intercontinentali, due Supercoppe europee, una italiana e la Coppa Italia, vinta come direttore tecnico del Parma. Accanto, è incorniciato il Milan 1988-89. «La squadra più forte della storia, per tanti». La cima della gloria. Ma merita un chiodo al muro anche il primo passo verso la montagna. «Fusignano, 2ª categoria. Avevo 27 anni. Non c’era una lira, raccolsi dei ragazzini. I difensori centrali avevano 14-15 anni, uno era alto 1,60. Incontrammo un centravanti che era stato in serie C. Finì 25 volte in fuorigioco». Ieri Arrigo ha lavorato un paio d’ore in palestra per puntellare gli acciacchi: anca, ginocchia… Quelle di Ancelotti stavano peggio. «Aveva dentro più plastica che cartilagine. Lo chiamavano Terminator. Arrivato da Roma, gli certificarono un 20% di invalidità. Berlusconi mi disse: “Come faccio a comprarlo? A Roma dicono: una sola…”. Io gli dissi: “Presidente, se me lo compra, vinco lo scudetto”. Si convinse: “Agli ordini…”. Un grande. Quando Carlo voleva comprare Nesta, Galliani gli suggerì: “Dì al presidente che ti farà vincere lo scudetto, come fece Arrigo con te”. Quando faceva freddo, Carlo si scaldava il ginocchio con il phon così la plastica che si era indurita si scioglieva». Nello studio c’è anche una scarpa dorata, dono di Ancelotti con dedica: «Per quel che è stato e per quel che sarà». Evani invece la dedica l’ha scritta su un libro: «Lei era così avanti che quando si voltava vedeva il futuro».
Siamo venuti a casa del Patriarca, dell’uomo che ha portato il calcio nell’era moderna, per una diagnosi sul nostro pallone che non sta meglio delle ginocchia di Ancelotti.
Sacchi, Juve-Napoli, JuveRoma, Napoli-Inter, Juve-Inter… Brutte partite, dovevano essere lo spot del meglio. «Qualche giorno fa stavo vedendo una partita del Manchester City con un amico. Gli proposi: “Andiamo a farci un tè”. E lui: “Ma stanno giocando”. Gli spiegai: “Abbiamo già visto tante cose belle e ne vedremo delle altre dopo”. Se a NapoliJuve starnutivi sul gol di Higuain ti eri perso tutto. C’è stato poco altro».
Perché siamo brutti?
«Perché siamo fermi al tatticismo di 70 anni fa. Pensiamo solo a vincere, non a un calcio di coraggio, bellezza, emozione. Hanno chiesto a Capello se vedesse delle novità. Ha risposto: il ritorno del libero. Ha ragione. Ricordo lo scozzese Roxburgh, direttore tecnico Uefa, all’Europeo del 2000, dopo la vittoria azzurra sull’Olanda. Mi disse: “Se vince l’Italia, torniamo indietro di 20 anni”».
Se la sua Italia avesse vinto il Mondiale del 1994, saremmo entrati nel futuro?
«No. Il mio Milan ha vinto tutto ed è stato celebrato da tutti. Un esempio forte, trascinante, c’era già. Lo ripeto sempre agli amici spagnoli: a forza di battere il Real Madrid, vi abbiamo insegnato come si fa a giocare… Prima erano individualisti anche loro. Anni fa stavo guardando una partita giovanile Italia-Danimarca con Costacurta. Più bravi individualmente noi, più squadra loro e vinsero. Billy commentò: “Hanno imparato tutti da noi, tranne che in Italia”. È anche una questione di storia».
Cioè?
«Siamo quasi sempre stati conquistati e occupati. Ci
A CASA DEL MAESTRO CHE HA REINVENTATO IL GIOCO, PER UNA DIAGNOSI SUL NOSTRO PALLONE E PER RAGIONARE DEI MASSIMI SISTEMI. CON L’AIUTO DI PAVESE, HESSE E MANDELA
siamo difesi scappando e facendo i furbi. Giochiamo a calcio come in guerra: quando il nemico sbaglia, spariamo noi. Il calcio è un riflesso della storia e della società: siamo un Paese vecchio, in crisi economica, culturale e morale, povero di idee nuove per cambiare. In Serie A vedo molti gruppi e poche squadre. Una squadra si muove sincronizzata, compatta e connessa. Un gruppo è un insieme di giocatori sparpagliati a distanze irregolari».
Non siamo anche poveri di tecnica individuale?
«Ho girato uno spot con Boateng e Marchisio. La controfigura, un ragazzo che faceva freestyle, palleggiava meglio di loro. Ma giocava solo in Promozione. Io dedicavo poco tempo alla tecnica individuale, la allenavo mentre educavo il gioco di squadra. Se la squadra è compatta e ricevi palla da vicino al momento giusto, sarà anche più facile stopparla. Se fai il 60% di possesso, i tuoi piedi, a forza di toccare la palla, miglioreranno. In allenamento ti accorgevi che la tecnica individuale di Gullit era mediocre, ma in partita non sbagliava nulla: aveva tecnica di gioco, non da circo. Graziani un giorno ci chiese: “Ma cos’avete fatto ad Angelo Colombo? Quando era all’Udinese non mi faceva un cross giusto…”. È stato all’università. Ha giocato un calcio creativo, ottimistico, con la palla sempre ai piedi ed è migliorato. Mandela diceva: “Io non perdo mai: o vinco, o imparo”. In un calcio offensivo e generoso è così».
Non risulta però che Van Basten adorasse la tattica.
«Un giorno mi lasciò sulla scrivania un foglietto: “Mister, facciamo un partitella libera!”. Io le facevo sempre a tema. Se la domenica avevamo fatto troppi lanci, ordinavo solo palla a terra. Marco pensava che gli italiani avessero gli anelli al naso. Gli spiegai che quando noi vincevamo Mondiali, gli olandesi erano ancora sott’acqua. Un giorno confessò: “Non mi diverto, perché si fatica troppo”. Gli risposi: “Primo: mai visto vincere senza faticare. Secondo: dovresti divertirti per via transitiva, vedendo quanta gente si diverte a guardarci”». Anche lo Stadium si diverte. «Certo. La Juve a tratti fa gran calcio, ma se segna, spesso si ferma. La Juve ha una dirigenza illuminata e mi piacerebbe che smettesse di ripetere: la sola cosa che conta è vincere. Allegri è uno dei più grandi allenatori italiani di tutti i tempi. È bravissimo a innalzare al massimo la qualità dei suoi. Eroe è chi fa quello che può fare, dice Romaine Rolland. Max sa ottenere una squadra di eroi e per questo vince. Ma io vorrei che, oltre alla qualità, innalzasse anche i valori, cercasse cioè di divertire ed emozionare. Non sarebbe più solo vincitore, ma degno vincitore. Altrimenti non lascia idee da ricordare, solo vittorie».
Altro merito: tiene la squadra in pugno. Vedi Bonucci.
«Grazie anche al solido appoggio del club. Al primo anno, dopo la sconfitta alla seconda giornata in casa con la Fiorentina, Van Basten criticò e i giornali ci misero contro. La domenica dopo a Cesena lo tenni fuori: “Marco, visto che sai molto di calcio, siediti vicino a me e dammi consigli”. Se Berlusconi non mi avesse appoggiato il mio Milan sarebbe finito lì. Lei ci crede all’astrologia?».
No.
«Neanch’io, prima di conoscere Silvagni, Professore di Astrologia a Fusignano. Studiò il futuro di Van Basten, quando arrivò mi disse: si infortunerà spesso. Il Professore si faceva seppellire in spiaggia e andava per ore in catalessi. Il suo segretario andava a svegliarlo alle 5 perché arrivava la marea. Solo che il segretario giocava d’azzardo. Un giorno che era al tavolo, si dimenticò e arrivò in spiaggia appena in tempo urlando: il professore è a mollo!».
Anche Dybala ha avuto problemi con Max.
«Dybala mi è sempre piaciuto. Lo consigliai a Real e Milan e gli chiesi se avrebbe voluto giocare per l’Italia quando lavoravo a Coverciano. Deve giocare mezzapunta e accettare le panchine. Ha ragione Herman Hesse: l’intelligenza è bene, la pazienza è meglio».
Un ricordo dell’Avvocato? «Prima di un Juve-Milan voleva salutare la squadra in spogliatoio. Berlusconi mi chiese se fossi d’accordo. Risposi: “Ha grande carisma. Non vorrei che i giocatori ne fossero influenzati”. Feci uscire in campo la squadra un quarto d’ora prima del suo arrivo. In spogliatoio trovò solo me e Berlusconi. Disse: “Il Milan è forte. Speravo che voi due poteste rovinarlo…”. Quando collaboravo con la Stampa, mi leggeva e spesso chiamava all’alba». Non possiamo dire però che il Napoli non sia bello.
«No, Sarri ha portato il Napoli già nel futuro. Non ha top player eppure esprime un gran calcio di qualità e valori. La conferma sono i tanti giocatori che sono migliorati: Koulibaly, Ghoulam, Mertens, Insigne… Lo scudetto sarebbe il giusto premio alla bellezza e alla generosità. Ma il Napoli non ha le risorse della Juve che può sottrarre i 36 gol di Higuain e inserire alternative come Cuadrado. Comunque vada, Sarri ha già vinto».
PENSIAMO SOLO A VINCERE, AL TATTICISMO COME SETTANTA ANNI FA
A CALCIO COME IN GUERRA: QUANDO IL NEMICO SBAGLIA SPARIAMO NOI
SULLA FILOSOFIA DENTRO IL NOSTRO CALCIO
Altri tecnici nel futuro? «Giampaolo, che contattai per primo, quando Ferrara lasciò l’Under 21 e Gasperini che ha creato una simbiosi unica con proprietà e città. E Di Francesco, che è bravissimo. Loro sì, giocano un calcio con lo spirito dei padri fondatori: coraggioso, offensivo, ottimistico. Oltre la tradizione. Come pure Oddo e De Zerbi. Ma non è facile. Alla vigilia di un MilanNapoli mi ritrovai in un ristorante di Milano con mia moglie. C’erano anche dei giornalisti, tra i quali Brera. Uno venne al tavolo a chiedermi: “Chi marcherà Maradona? Abbiamo fatto una scommessa tra noi”. Uno diceva Baresi, un altro Tassotti, un altro Galli… Mia moglie, che non segue il calcio, mi chiese: “Ma tu non giochi a zona?” Se uno non vuol capire…».
Di Francesco, tra Nainggolan e spiccioli, ha qualche problema. «Lo dicevo: il calcio è un riflesso della società. Roma è la città più bella del mondo, ma soffocata dall’immondizia. Contraddizioni, problemi. Città dispersiva. È difficile vincere. “Uno scudetto a Roma ne vale dieci a Torino”, dice Capello». IL SUO MILAN
DYBALA E VAN BASTEN. MA ANCHE IL GINOCCHIO DI PLASTICA DI ANCELOTTI DA SCIOGLIERE CON IL PHON E UN ASTROLOGO IN CATALESSI SEPOLTO SOTTO LA SABBIA
Non era dispersiva Rimini, capitale della vita notturna?
«Solo dove abitavo io c’erano 8 discoteche. Il segreto è scegliere l’uomo prima del calciatore, come ho sempre fatto. A Rimini avevo una squadra di giovani e Frosio, ex del grande Perugia, all’ultimo anno che dava l’esempio. Per una settimana intera venne ad allenarsi con 39 di febbre anche se gli dicevo di stare a casa. E così abbiamo fatto bene nonostante il divertimentificio. A inizio stagione Galeone aveva profetizzato: “Una squadra promossa in B c’è già, la mia Spal. Una retrocessa di sicuro pure, il Rimini”. Invece noi arrivammo quarti e loro quattordicesimi. E quando vennero a Rimini gli tappezzammo lo spogliatoio col giornale di quell’intervista».
La Lazio?
«Gioca benissimo: leggerezza e buone idee. Non conosce tatticismo, perciò diverte in trasferta come in casa. Ho telefonato a Tare per complimentarmi: vede giocatori come pochi».
L’Inter?
«Se il tuo miglior giocatore, Icardi, riceve meno palloni degli altri, c’è un problema. A Baggio, che faticava a entusiasmarsi per il nostro gioco, promettevo: “Tu tocchi 30-40 palloni a partita. Con noi ne giocherai 100”. L’Inter ha grandi margini di crescita, quando il gioco migliorerà».
Il Milan fa venire «mal di stomaco» anche a lei?
«È un’incognita in tutto. È stata fatta una campagna acquisti sbalorditiva, ma è stato messo il gioco al centro del progetto? È stata valutata la professionalità e la compatibilità dei prescelti? Sono adatti al gioco? Gattuso ha ricevuto una patata bollente, ma sa tirare fuori il meglio da ognuno».
Il primo contratto al Milan lo firmò in bianco, giusto?
«Sì e presi meno che al Parma. Ma al secondo anno me lo raddoppiarono per lo scudetto. Poi mi chiamarono e mi spiegarono: “Non possiamo raddoppiare ogni anno. Anche perché lo scudetto ormai è perso e la Coppa Campioni è dura da vincere…”. C’era una bella differenza tra quello che offrivano e quello che chiedevo io. Allora proposi: “Ok, se non vinciamo la coppa prendo quello che mi date, ma se vinciamo la Coppa Campioni, triplicate la differenza che c’è ora”. Quando mi abbracciò in campo a Barcellona, dopo la finale, Berlusconi mi disse: “Mai stato così felice di pagare dei soldi…”».
Come sono nati i principi rivoluzionari di quel Milan?
«Da me stesso, da come sono. Quando vado in bici e incontro una discesa ripida, volto la bici e faccio la salita. Per me è sempre stato tutto una sfida. Dicevano: bravo quel Sacchi, ma vince solo con i giovani…; poi: ma vince solo in C, poi ma vince solo in B… Sempre una sfida. Pavese ha scritto: “Non c’è arte senza ossessione”. Per me il calcio è sempre stato ossessione, ricerca continua del massimo, della bellezza. Pensavo che lo spettacolo del gioco aiutasse e amplificasse la vittoria. Senza ossessione non c’è evoluzione. Guardiola ha ossessione, anche Conte, ma soffre di tatticismo. Da piccolo tifoso dell’Inter ammiravo il grande Real Madrid. A 8 anni scappai di casa per vedere la finale del Mondiale del ’54 in uno dei pochi televisori del paese. Mio padre, sapendo la mia passione, mi ritrovò subito. Mia madre più che dalla fuga fu sorpresa che tifassi per la grande Ungheria: “Stai con i comunisti?” Quegli squadroni e poi il grande Ajax mi gonfiavano il cuore e le idee. Quando arrivai a Milano, in Piazzale Lotto, da dove poi il pullman ci portava a Milanello osservavo i milanesi che camminavano tutti di fretta e pensavo: qui sarà facile insegnare pressing. Ho sempre dato tutto me stesso con ossessione e alla fine mi sono svuotato. Tornai al Parma per poche partite, vincemmo a Verona, ma non provai la minima soddisfazione. Ero vuoto, avevo dato tutto. Telefonai a mia moglie e le dissi che tornavo a casa. Andai da uno psicologo a Bologna e gli chiesi se fosse normale la reazione di Verona. Mi rispose: “Non è normale tutto quello che ha fatto prima”».
Come cambierebbe oggi quel Milan?
«A Baresi dicevo sempre: “Franco, sappi che ogni tuo lancio mi dà un dispiacere”. Ecco oggi avremmo ancora di più l’esigenza di restare corti e compatti, tipo Napoli. E di guadagnare tempi di gioco. Se quando Maldini avanzava, Evani gli veniva incontro. Ora direi a Evani di tagliare in mezzo. E tantissime altre cose».
E come si potrebbe spingere il calcio italiano nel futuro?
«Il Real da solo investe nel vivaio quanto tutti i club d’Italia. Che il Supercorso sia stato ridotto a 32 giorni è un insulto alla cultura. In Spagna dura un anno e mezzo. Aprire centri di formazione per i tecnici dei vari settori giovanili. Portare avanti ciò che abbiamo fatto a Coverciano, a cominciare dall’attenzione alla educazione. Io spiegavo: “Non so se formeremo buoni giocatori, di sicuro uomini migliori”. Educare i ragazzi a cercare le vittorie di squadra in un Paese di individualisti. Abbiamo aumentato del 30-40% gli incontri internazionali per favorire il confronto e la crescita».
La Var?
«Ecco. Sono stato piacevolmente sorpreso dalla nostra sperimentazione: finalmente abbiamo preceduto gli altri in qualcosa. Ora bisogna vigilare che la paura di perdere privilegi e la presunzione di qualche arbitro non guasti tutto».
Tra i tanti libri sul calcio e tra i quaderni ad anelli in cui conserva i segreti più intimi del suo Milan leggendario, il Patriarca ha un vocabolario mondiale del calcio. «Le sole voci italiane sono catenaccio e libero». Oltre il vetro della finestra ci segnala con orgoglio una quercia («che aveva già 40 anni quando la piantai l’anno della prima Coppa Intercontinentale»), un leccio di 90 anni e un bagolaro di 100. A presidiare il giardino dell’allenatore che ha inventato il futuro, ci sono tre alberi dalle radici secolari, maestosi come Tassotti, Baresi e Maldini. Appena oltre il cancello verde, un uomo che porta un cane al guinzaglio saluta: «Ciao Arrigo». Arrigo ricambia e, createsi le opportune distanze, spiega: «Quel signore giocava bene da ragazzo. Lo volevo nel mio Fusignano. Ma ci chiedeva 60 mila lire e non potevamo permettercelo. Andò al Sant’Alberta, la più forte. Però alla prima di campionato li abbiamo battuti».
Non c’è arte senza ossessione.
LO SCHERZO A GALEONE , IL CONTRATTO DI BERLUSCONI, LA FUGA PER L’UNGHERIA, I DISPIACERI DI BARESI
«SE INCONTRO UNA DISCESA RIPIDA, VOLTO LA BICI E FACCIO LA SALITA. TUTTA LA VITA COSÌ: UNA SFIDA»

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